La volontà di avvalersi della clausola di risoluzione di un contratto di locazione commerciale è efficace soltanto in presenza di determinate condizioni. Chiariamo quali sono tali condizioni e cosa è necessario fare per avvalersi correttamente del diritto di risoluzione.
La volontà di avvalersi della clausola di risoluzione di un contratto di locazione commerciale è efficace soltanto se comunicata all’Agenzia delle entrate. È questo l’orientamento che si desume dalla lettura della sentenza n. 756/09/2018 emanata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio. Pertanto, per far valere la risoluzione ipso iure, è necessario che la parte comunichi la chiara volontà di voler avvalersi della disposizione di cui all’art. 1456 del codice civile.
Secondo quanto sancito dalla Commissione regionale del Lazio, quindi, in ossequio all’orientamento della Corte di cassazione (sentenza n. 19240/2016), i canoni di locazione concorrono a formare reddito imponibile anche se non percepiti per mancato pagamento alle scadenze, finché non sopraggiunga la risoluzione del contratto o il provvedimento di convalida dello sfratto.
La vicenda
L’Agenzia delle entrate aveva emesso due avvisi di accertamento relativi agli anni 2007 e 2008 poiché il locatore non aveva fatto concorrere al proprio reddito i canoni di locazione commerciale ancorché non percepiti e aveva ottenuto lo sfratto per morosità dal Tribunale di Latina soltanto il 12 giugno 2008.
I giudici della Commissione tributaria provinciale di Latina avevano accolto il ricorso del contribuente ritenendo che alla vicenda in esame potesse applicarsi automaticamente:
- la clausola contenuta nel contratto di locazione secondo cui “il mancato pagamento, anche parziale del canone di locazione e degli oneri accessori entro i termini di legge e al domicilio indicato, produrrà ipso iure la risoluzione del contratto, per fatto e colpa del conduttore, fermo restando l’obbligo di corrispondere il dovuto e il risarcimento del danno a favore del locatore, a norma dell’art.1456 c.c.”;
- la sentenza della Corte Costituzionale n.326/2000, secondo la quale gli effetti della risoluzione giudiziale retroagiscono dal momento in cui si è verificata la causa risolutiva e non dal momento della sentenza.
Al contrario, secondo l’Amministrazione finanziaria, il contribuente non si è avvalso della clausola prevista dall’articolo 1456 c.c. che gli avrebbe consentito il diritto di risoluzione «ipso iure» tant’è che:
- il contribuente ha comunicato la risoluzione del contratto soltanto in data 29 settembre 2008;
- il giudice del Tribunale di Latina, cui il contribuente si era rivolto per intimare lo sfratto, ha convalidato ed emesso un decreto ingiuntivo per un importo corrispondente ai canoni scaduti e a quelli ancora a scadere fino alla data del rilascio oltre alle spese legali; secondo l’Agenzia delle entrate, il recupero dei canoni non percepiti costituisce un’ulteriore dimostrazione che gli stessi dovevano essere regolarmente dichiarati e assoggettati a imposizione.
La sentenza
Nella sentenza di secondo grado viene osservato che non può essere invocata la retroattività sancita dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 326/2000 poiché la retroattività riguardava l’ipotesi di risoluzione giudiziale, i cui effetti appunto retroagiscono dal momento in cui si è verificata la causa della risoluzione e non dal momento in cui viene resa la sentenza. Pertanto, in mancanza di espressa comunicazione del contribuente di avvalersi della clausola risolutiva, era del tutto legittimo il recupero dei canoni non percepiti che avrebbero dovuto quindi essere dichiarati.
Analogamente alla tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, quindi, i giudici di secondo grado hanno verificato che il contribuente non aveva inoltrato all’Agenzia delle entrate alcuna comunicazione espressa della volontà di avvalersi della clausola risolutiva contenuta nel contratto di locazione e, pertanto, non aveva attivato l’invocata risoluzione di diritto.
Fonte: www.fisco7.it del 11/09/2018